La studiano da anni ma solo di recente è stata fatta una scoperta a dir poco incredibile sulla famosa Stele di Mesha. Ci sono le prove: ecco che cosa si cela su di essa
La sua scoperta risale addirittura al 1896 quando venne trovata, divisa in vari frammenti, ad oltre 20 km a est del Mar Morto. Dopo un accuratissimo restauro venne spostata nel famoso Museo del Louvre di Parigi ma da allora gli studi su di essa non si sono mai interrotti e, di recente, hanno portato ad una scoperta clamorosa.
Stiamo parlando della famosa Stele di Mesha, nota anche come Pietra Moabita: si tratta di una lastra di basalto nero trovata in Giordania, risalente all’840 a.c. che, grazie ai continui studi condotti nel corso degli anni, ha fornito preziose informazioni a storici e linguisti sulla lingua moabita. Questo nonostante tre anni dopo la scoperta sia stata danneggiata: infatti prima che il danno compromettesse lo studio ‘diretto’ sulla stele era stata prelevata un’impronta di cartapesta dell’iscrizione.
La novità eclatante è che, senza ombra di dubbio, è stato accertato che su di essa vi sono espliciti riferimenti al Re Davide. L’incisione sulla lastra è un lungo racconto del re Mesha di Moab e della sua entrata in guerra con Israele con una serie di allusioni, al dio israelita, alla “Casa di Davide” e all'”Altare di Davide“. Nonostante da decenni si analizzi ciò che è riportato sulla stele, non vi era, almeno fino ad oggi, la certezza che i riferimenti al re Davide fossero stati correttamente decifrati e dunque sulla questione restava un alone di mistero.
Le cose sono cambiate sul finire del 2022, come è possibile leggere in un articolo intitolato La stele di Mesha e la casa di Davide (“Mesha’s Stele and the House of David”) pubblicato dai ricercatori André Lemaire e Jean-Philippe Delorme sul numero invernale della Biblical Archeology Review. Articolo che è stato redatto dopo aver riesaminato le prove raccolte nel corso degli anni: bisogna infatti fare un passo indietro al 2015 quando un team del West Semitic Research Project dell’University of Southern California scattò una serie di fotografie digitali della stele restaurata e dell’incisione in cartapesta. Il metodo impiegato noto come Transformation Imaging o ‘riflettanza’, spiegarono all’epoca gli esperti “è particolarmente prezioso perché il rendering digitale consente ai ricercatori di controllare l’illuminazione di un manufatto scritto, in modo da rendere visibili incisioni nascoste, deboli o usurate”. Consiste nello scattare una fitta serie, e da varie angolazioni, di foto digitali del manufatto andando poi a combinarle tra loro al fine di dar forma ad un rendering digitale tridimensionale praticamente perfetto.
Trascorsi tre anni si è tentato un nuovo esperimento prendere queste immagini ad altissima risoluzione per proiettare su di essere la luce proveniente dalla carta di oltre un secolo e mezzo fa e ottenere immagini ancor più chiare e nitide dell’antica iscrizione.
Da qui la conferma di quello che aveva già scoperto lo studioso francese André Lemaire ricostruendo una parte della riga 31 della stele e capendo per primo che si trattava di un riferimento alla Casa di Davide. Tanto occorre però ancora capire sul moabita e sulla sua relazione con l’ebraico dell’epoca. Stando a quanto riportato sul volume Studies in the Mesha Inscription and Moab di Dearman e Jackson del è probabile “che il moabita e l’ebraico fossero, per la maggior parte, reciprocamente intelligibili”.
Articolo di Daniele Orlandi
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