Forse non ci preoccupiamo abbastanza del problema della conservazione degli alimenti. Diamo cioè per scontato che tutti i prodotti acquistati al supermercato siano garantiti nella loro integrità dalle pratiche di lavorazione degli alimenti stessi. Ma è davvero così?
La conservazione serve a impedire lo sviluppo di microrganismi nei cibi, come i lieviti, i batteri derivanti dall’ossidazione dei grassi che causano l’irrancidimento. Ma spesso i produttori si preoccupano solo dell’apparenza… E poi, è davvero utile usare conservanti chimici nei prodotti?
Il problema della conservazione degli alimenti
Molti metodi di conservazione degli alimenti si concentrano su processi che inibiscono il deterioramento esteriore del prodotto. Per esempio ritardano la reazione di imbrunimento enzimatico nelle mele dopo che sono state raccolte. Ciò che interessa al consumatore è però avere a disposizione un cibo sicuro e ben conservato. Conservare a lungo il cibo è importante.
Ed è sbagliato pensare che tali pratiche siano innaturali o nemiche dell’ambiente. Anzi, tramite la conservazione è possibile ridurre gli sprechi alimentari, ridurre i costi di produzione e aumentare l’efficienza e la sicurezza dei sistemi alimentari. Senza processi sicuri di sterilizzazione e conservazione dei cibi, l’industria alimentare sarebbe costretta a produrre continuamente nuovi prodotti, mettendo in crisi le risorse e l’ambiente.
Alcune tecniche di conservazione degli alimenti sono vecchie quanto il mondo. Per esempio la bollitura, la pastorizzazione, l’essiccazione, l’inscatolamento, l’affumicatura, il congelamento, la stufatura e la gelificazione…
Tecniche industriali indispensabili
Tali tecniche sono oggi gestite a livello industriale. Come nel caso della pastorizzazione, che è il processo principale per la conservazione di alimenti liquidi. In origine si applicava per combattere l’inacidimento dei vini novelli. Oggi, invece, questo processo si usa con i prodotti lattiero-caseari. Funziona così: il latte viene riscaldato a circa 70° C per massimo trenta secondi. Così si uccidono tutti i batteri presenti in esso.
Poi il prodotto viene raffreddato rapidamente a 10° per impedire lo sviluppo dei batteri superstiti. Il latte viene poi conservato in bottiglie o buste sterilizzate. L’inventore del metodo fu Louis Pasteur, un chimico francese di fine Ottocento.
Il metodo di conservazione più diffuso oggi è quello dell’uso di additivi alimentari, ovvero conservanti. Di che tipo? L’industria usa antimicrobici che inibiscono la crescita di batteri o funghi , comprese le muffe. Oppure sfrutta gli antiossidanti, come gli assorbitori di ossigeno, che inibiscono l’ossidazione.
Ma cosa si trova in questi additivi. Principalmente abbiamo a che fare con EDTA, propionato di calcio, nitrato di sodio, nitrito di sodio e solfiti. Fra questi solfiti troviamo anidride solforosa, bisolfito di sodio e idrogeno solfito di potassio. Fra gli antiossidanti troviamo invece idrossianisolo butilato (BHA) e idrossitoluene butilato (BHT). Qualche volta anche formaldeide (di solito in soluzione), glutaraldeide ed etanolo. Tutte sostanze che ci spaventano, ma che sono regolate da rigidi disciplinari studiati per non nuocere alla salute.