L’essere umano ha sempre cercato di figurarsi l’aspetto della morte. Ciò significa che ha collegato questo concetto fondamentale dell’esistenza all’apparenza più o meno manifesta di una figura inquietante o, al contrario, consolatrice. In numerose mitologie ricorre il personaggio della morte armata di falce: uno scheletro a cavallo che strappa via l’anima dai vivi. Ci sono poi le figure degli psicopompi, degli spettri o dei mostri. Nelle lingue neolatine, la morte è un sostantivo femminile, ecco perché in molti Paesi le personificazioni della morte sono femmine…
Conosciamo ovviamente anche morti interpretate da uomini: cavalieri, boia, demoni… Ogni cultura si figura la morte a modo suo, secondo propria sensibilità… Solo in Europa esistono decine di personificazioni differenti del concetto. Scopriamole insieme.
Gli antichi Greci immaginavano Tanatos, il dio della morte, come una divinità dalla doppia apparenza: costui si mostrava come un giovane alato e cupo o un vecchio dalla lunghissima barba. Sappiamo che sia gli Ateniesi che gli Spartani onoravano questo dio con un culto particolare e segretissimo.
Furono proprio i Greci i primi ad associare la falce alla morte. Conosciamo infatti sculture di Tanatos in cui il dio appare coperto da un velo, con una falce in mano (che ovviamente simboleggia la vita raccolta come il grano). Altre volte tiene in mano una farfalla o un papavero. Gli antichi Romani lo chiamavano Mors, e lo rappresentavano magrissimo, quasi scheletrico. E da qui, tramite vari sincretismi con altre tradizioni, si sarà poi evoluta l’allegoria della personificazione della morte sotto forma di scheletro.
Nel nostro Paese la morte è stata rappresentata più volte nella storia dell’arte. Spesso proprio come un cavaliere scheletrico con una grossa falce in mano. Se è un maschio, lo chiamiamo Tristo Mietitore o Cupo Mietitore, se è femmina, la chiamiamo Morte, Nera Mietitrice. Ma com’è nata l’associazione fra morte e scheletri?
Secondo alcuni studi, la prima personificazione scheletrica della morte è apparsa in Olanda. Qui infatti, all’inizio del Medioevo, la morte era conosciuta come Magere Hein o zio Hein, uno scheletro che se ne andava in giro a prelevare le anime dei morti.
Proprio la figura di Magere Hein (ben integrata nel Cristianesimo) diventerà un topos culturale occidentale. Come notiamo per esempio nelle varie Danze macabre e nelle opere plastiche o pittoriche che rappresentano la morte. Anche gli scandinavi (norreni, vichinghi) utilizzavano le immagini di uno scheletro per dar corpo al concetto di morte. Tale figura fu di certo mutuata dalla tradizione olandese, che a sua volta si era mischiata con la mitologia del mondo greco-romano. Prima di questa contaminazione culturale, però, la mitologia norrena personificava la fine dell’esistenza nella figura di Hel, la bellissima dea della morte, che governava sul grande regno dove riceveva una parte dei defunti. I lettoni chiamavano la morte Velu mate. I lituani invece la conoscevano come Giltine: entrambe queste personificazioni sono delle donne vecchie e decrepite, con un naso blu…
I gallesi invece evocavano un uomo altissimo e con i lunghi capelli bianchi, sempre seduto su un carro trainato da cavalli o buoi. Per gli irlandesi la morte era un cavaliere con la testa staccata dal corpo (talvolta se la portava in giro sotto le braccia). La tradizione gaelica immaginava la morte anche come uno spirito femminile noto come Banshee, la quale annuncia la fine di una persona urlando o lamentandosi…
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