Un nuovo studio della University of York (Inghilterra) sembra aver scoperto in che condizioni gli uomini preistorici si dedicavano all’arte rupestre, alla scultura e ai graffiti. Pare infatti che gli uomini della pietra si dedicassero alle attività artistiche sempre alla luce del fuoco.
Sculture, arte rupestre, graffiti, petroglifi… Forse tutte le manifestazioni artistiche che appartengono al periodo preistorico, dal Paleolitico fino all’età del bronzo, sono state svolte sotto la luce tremolante e romantica (e intossicante) del fuoco. E non parliamo solo di opere scoperte in caverne (dov’è naturale sfruttare un’illuminazione), ma anche di manufatti creati all’aria aperta.
I nostri antenati che popolarono il mondo durante la Preistoria, molto probabilmente, si dedicavano all’arte stando di fronte alla luce del fuoco. I ricercatori della York Univerity hanno infatti riscontrato che quasi tutte le pietre decorate studiate (risalenti a circa quindicimila anni fa) presentano danni collegati al calore. L’esame ha coinvolto più di cinquanta pietre incise rinvenute in Francia.
Le pietre in questione mostrano disegni artistici davvero intricati e artisticamente validi. Risalgono a circa quindicimila anni fa e palesano dei danni da calore. Proprio questi danni suggeriscono che queste pietre fossero scolpite e incise vicino alla luce di un fuoco. La ricerca, condotta da ricercatori delle Università di York e Durham, ha preso in esame pezzi della collezione di pietre incise, note come placchette, che ora si trovano al British Museum. Secondo i paleontologi sono strumenti di pietra creati dal popolo magdaleniano, cioè una proto-cultura di cacciatori-raccoglitori attiva in Europa più o meno ventimila anni fa.
I ricercatori di York hanno identificato modelli standard di danni da calore (quasi sempre di colore rosa) attorno ai bordi di alcune delle pietre. E quest’evidenza dovrebbe suggerire che tutti questi manufatti sono stati realizzati vicino alla luce di un fuoco. Insomma, prima di mettersi all’opera, l’uomo preistorico si preoccupava sempre di accendere un bel falò.
Oltre a studiare i reperti, i ricercatori hanno creato una replica delle pietre stesse per dar vita a un esperimento. Hanno cioè utilizzato i loro modelli 3D e un software di realtà virtuale per ricreare le placchette così come dovevano essere in origine sotto gli occhi degli artisti primitivi esposti al fuoco. In questo modo si sono accorti che il lavoro alla luce del fuoco appare molto più approssimativo rispetto a come poteva essere se svolto alla luce naturale (quella del sole). Questo sistema di illuminazione era più fragile e tremolante, quindi instabile, soprattutto per opere così precise e incisioni così sottili. Ma allora perché i nostri antenati posizionavano di proposito i loro manufatti vicino al fuoco?
Forse, spiegano gli antropologi, praticavano l’espressione artistica solo di notte. Di giorno cacciavano e lavoravano. Oppure usavano il fuoco come ispirazione. La luce tremolante e le ombre mobili creavano linee e prospettive che gli artisti seguivano per dar vita a forme più originali. Un fenomeno di pareidolia, insomma.
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