Si dà per assodato che nessuno negli Stati Uniti avrebbe seguito con tanta partecipazione il rientro degli astronauti della missione Apollo 13. Ma a sei giorni dal lancio, tutto cambiò: la navicella fallì l’allunaggio e la vita degli astronauti fu messa in pericolo. L’incendio che coinvolse l’SM della missione fece sì che milioni di persone seguissero in diretta lo splashdown.
L’Apollo 13 precipitò dolcemente nel Pacifico meridionale il 17 aprile 1970. E l’evento commosse profondamente l’opinione pubblica. Per la NASA fu un successo. Nonostante la missione fosse fallita.
Un rietro critico: lo splashdown dell’Apollo 13
I tecnici della NASA fecero di tutto per guidare il veicolo spaziale sulla corretta rotta di rientro. Ma l’Apollo 13 si spostò di traiettoria più volte, rendendo necessarie varie correzioni. Il sistema di guida era fuori uso. Dopo l’incendio a bordo (avvenuto in entrambi i serbatoi di ossigeno dell’SM, cioè del modulo di servizio), l’equipaggio dovette dunque utilizzare la linea di separazione fra notte e giorno sulla Terra per orientarsi. Si trattava di una tecnica sfruttata dalle missioni in orbita terrestre ma mai sperimentata sulla rotta di ritorno dalla Luna. L’obiettivo era quello di riportare l’angolo di traiettoria di volo di ingresso previsto entro limiti di sicurezza.
Bisognava poi separare il modulo lunare (LM) dal modulo di comando (CM) prima dell’impatto con l’atmosfera. Secondo la procedura standard, gli astronauti avrebbero dovuto disfarsi del modulo lunare nell’orbita del satellite per rientrare con l’RCS del modulo di servizio. Ora invece occupavano lo stadio CM ancora attaccato all’LM.
Subito dopo l’incidente, infatti, gli astronauti avevano chiuso tutti i sistemi del CM per conservare le risorse indispensabili per il rientro e si erano trasferiti sull’LM, dove c’era più ossigeno.
Era dunque necessario capire quanta pressione e quanta forza utilizzare per separare i moduli in condizioni di discesa. Gli astronauti misero in atto le disposizioni dettate da Houston e il distacco fu compiuto. Lo stadio LM superò l’atmosfera terrestre e fu distrutto: i detriti rovinarono nelle profondità dell’oceano.
Le ultime manovre
L’ultima correzione intermedia dell’Apollo 13 pose l’astronave sopra la fossa di Tonga, nell’Oceano Pacifico. E non era il punto ideale dove ammarare. Lo splashdown poteva riversare nell’oceano una botte contenente ossido di plutonio: un materiale altamente radioattivo, e c’era poi il pericolo che il gommone di salvataggio fosse ribaltato dalle onde troppo alte.
Il punto di impatto corrispondeva di fatti a uno dei punti più profondi dell’oceano. Ecco perché fino all’ultimo minuto i controllori provarono a modificare la rotta. Per la cronaca: la botte affondò piombando a dieci chilometri sul fondo. E per fortuna non ci furono perdite radioattive.
La ionizzazione dell’aria attorno al modulo di comando durante il rientro provocò (come preventivato) un blackout delle comunicazioni di quattro minuti. I controllori della NASA temevano che lo scudo termico del CM fosse guasto. Tutti pensarono al peggio… Ma lo splashdown si concluse ottimamente. La navicella riprese il contatto radio e precipitò in sicurezza nell’Oceano Pacifico meridionale, a sud-est delle Samoa americane.
La nave di recupero, la USS Iwo Jima, si mosse subito per andare a recuperare gli astronauti insieme a un elicottero. I membri l’equipaggio erano in buone condizioni. Solo Haise stava male: soffriva di una grave infezione del tratto urinario a causa dell’insufficiente assunzione di acqua. E così si concluse l’avventura dell’Apollo 13, la terza missione degli Stati Uniti organizzata per far sbarcare gli esseri umani sulla Luna. Lanciato l’11 aprile 1970, l’Apollo 13 non fu un successo, ma è ancora oggi ricordato come un capitolo importante della storia americana.