Tra leggenda e realtà, la donna dei racconti popolari con la funzione di porre fine alla vita altrui
Accabadora significa “colei che finisce”. Si tratta di una figura presente nel folklore sardo, che si crede ponesse fine alle sofferenze altrui provocando la morte. Queste donne venivano chiamate in soccorso dai parenti del moribondo, proprio nel momento delicato precedente una morte certa. Generalmente la femmina accabadora entrava in scena in presenza di un malato terminale o di una persona già condannata a morte.
Una pratica antica di eutanasia per accompagnare le sofferenze verso una soluzione di quiete definitiva
Non si hanno prove certe sulla sua reale esistenza, ma si continua a tramandare l’ immagine attraverso i racconti. Si pensa che le femmine accabadore fossero vedove che vivevano di elemosina – dopo la morte dei mariti e lasciate sole dai figli – che riuscivano a portare – dopo le pratiche di morte – un tozzo di pane a casa. In altri racconti si trattava della stessa levatrice: colei che dava la vita era preposta anche a toglierla, quando necessario. Quest’ultima infatti usava indossare una veste bianca in presenza di una nascita e una nera durante le pratiche di eutanasia.
Le pratiche di morte: la preparazione, il rituale e l’atto finale
Un gesto che non poteva essere “comprato con i soldi”. Permessi solo segni di riconoscenza attraverso delle offerte (cibo, vino, tessuti, utensili). Le leggende narrano che la femmina accabadora entrasse nella stanza del moribondo con una veste scura e il volto incappucciato. L’ambiente, privato di ogni oggetto sacro (croci, statue, figure religiose), diventava il luogo della transizione, dell’ultimo passaggio sulla terra.
LEGGI ANCHE > Marte – Curiosity riaccende la speranza di vita
Dalla vita alla morte. L’ accabadora si avvicinava con fare magnetico – a mo’ di spirito in pieno stile dark comedy – alla vittima sofferente. In necessaria assenza di altre persone. Infatti l’accabadora esortava i parenti ad uscire dalla stanza. La pratica di eutanasia avveniva generalmente per soffocamento da cuscino. Altre volte stringeva il collo del moribondo tra le sue gambe o somministrava all’agonizzante un veleno letale. Nei racconti popolari è frequente l’uso di uno speciale bastone di ulivo detto matzolu con il quale si pensa sferrasse il colpo decisivo finale.
LEGGI ANCHE > Scoperte impronte risalenti a 23 mila anni fa: non dovrebbero esistere
La figura della femmina accabadora è attestata tra il ‘700 e l’800, bensì pare che questa pratica fosse comune in Sardegna anche durante il ‘900. Gli studi di antropologia non hanno riportato alla luce reali prove circa la sua esistenza. Ma è possibile comunque trovare queste pratiche ben raccolte in vari scritti. Tra la bibliografia presente in merito, citiamo il romanzo penna di Michela Murgia, Accabadora e Eutanasia ante litteram in Sardegna. Sa femmina accabbadòra. Usi, costumi e tradizioni attorno alla morte in Sardegna di Alessandro Bucarelli, Carlo Lubrano.