Non è un insegnante né un terapeuta, e nemmeno un semplice motivatore. Ma allora che cos’è un mental coach? E come mai questa nuova figura professionale è così richiesta?
Sentiamo continuamente parlare di mental coach che affiancano i campioni dello sport, i grandi manager nel mondo del lavoro e gli artisti dello spettacolo. Ma ci sono anche coach che supportano pazienti nello studio e nella sfera personale. In breve, il mental coach è un esperto che aiuta a definire un obiettivo per poi tracciare la strada migliore per raggiungerlo. Un po’ come un maestro di vita o uno specialista della maieutica (l’arte di far venir fuori una verità). Ma come ci riesce?
Il vero coaching non consiste nel motivare le persone, ma si concentra di più su un lavoro basato sulla definizione della consapevolezza. Questa figura aiuta insomma gli assistiti a rendersi conto delle loro reali possibilità e a disegnare, per il futuro prossimo, uno scopo raggiungibile. Ecco perché questa disciplina declina la propria offerta in molte diverse situazioni. Il mental coach può infatti supportare i grandi atleti, gli studenti che devono arrivare alla laurea, i manager che devono portare avanti progetti complicati, i depressi che devono superare un blocco. E molto altro ancora.
I critici sostengono che il mental coaching sia in realtà una strategia poco utile e scientificamente ambigua. Sospesa cioè tra psicologia spiccia e comportamentismo. Esistono però delle ricerche scientifiche che dimostrano l’efficacia di questa nuova figura professionale. A quanto pare, un buon coaching mentale può fare la differenza in tutte le situazioni della vita.
C’è un interessante studio condotto da un team di scienziati dell’Università di Groningen e altri atenei olandesi su un gruppo di calciatori della nazionale e di atleti top in atletica leggera. Questa ricerca ha dimostrato che quattro sessioni di mental coaching distribuite in una settimana sono state sufficienti affinché le onde alfa cerebrali degli sportivi si stabilizzassero su un livello che indicava maggiore relax mentale e quindi maggiore capacità di concentrazione. Trae un giovamento anche l’efficienza muscolare, misurata con strumenti che quantificano la trasmissione dell’impulso nervoso e la capacità di contrarsi. Anche se i progressi sono minimi, sappiamo che ad alto livello pure un piccolo incremento può fare la differenza tra la vittoria e la sconfitta.
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Gli scienziati della California State University insieme a colleghi coreani hanno invece sottoposto alcuni atleti paraolimpici di tennis da tavolo a otto sedute di mental coaching in tre mesi. Tutti questi atleti hanno ottenuto un migliore controllo emotivo durante le partite.
Sapevate che la parola coach ha origine dal termine francese coche, ovvero carrozza o cocchio? Nel XVI secolo “coche” era quindi un mezzo di trasporto trainato da cavalli e condotto da una guida: il cocchiere. Da qui si è sviluppato il termine anglosassone, che rinvia all’insegnamento nell’ambiente sportivo. Nel XIX secolo, in Inghilterra, gli studenti universitari iniziarono a utilizzare questa parola per indicare i migliori tutor, dando loro un titolo rispettoso e autorevole.
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Nato in ambito sportivo, il mental coaching è stato poi codificato da alcuni studiosi negli anni Ottanta del Novecento. Oggi è applicato ad aziende e persone.
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