Cinema e psicoanalisi sono legati da un fil rouge che li ha fatti nascere insieme alla fine dell’800, e che li unisce nel mondo delle immagini, dell’inconscio e dei sogni.
Il cinema corteggia Freud
Sigmund Freud ha rifiutato nel 1925 la bellezza di centomila dollari, una cifra altissima per il tempo. Ad offrirgli questa somma di denaro fu il produttore hollywoodiano Samuel Goldwyn, che lo voleva per una collaborazione alla sceneggiatura del film dedicato alla storia d’amore tra Antonio e Cleopatra.
Ma questo non fu l’unico invito che il padre della psicoanalisi rifiutò, perché nello stesso anno gli venne fatta un’altra importante proposta. Lo sceneggiatore Hans Neumann e il regista tedesco Pabst stavano girando il film i segreti di un’anima, basato sull’assoluzione di un caso clinico di un uomo afflitto da sogni uxoricidi, e chiesero a Freud una consulenza scientifica. Il no del medico fece notizia, soprattutto perché lui comunicava chiaramente quello che pensava.
Il cinema ama l’inconscio
Anche se Freud se ne voleva stare ben lontano dal cinema, questo fatto non fermò l’attrazione fatale che si creò fra la cinematografia e l’inconscio. Diversi film, infatti, fanno ricorso alla psicoanalisi per descrivere i loro personaggi illustrando perfino tecniche terapeutiche. Si pensa che questo legame tra cinema e inconscio si sia creato soprattutto perché sono nati negli stessi anni, alla fine dell’800. Un esempio straordinario della contemporaneità del loro sviluppo lo si ha verso la fine dell’ottocento. Nel 1895 i fratelli Lumière, infatti, proiettarono a Vienna e a Parigi le prime pellicole, mentre Freud scriveva i suoi studi sull’isteria e pubblicava l’interpretazione dei sogni nel 1900. Pura coincidenza? Qualcuno pensa di no!
Ad entrambe le materie, infatti, interessava l’inconscio: alla psicoanalisi per curare la mente, al cinema per costruire opere visionarie ed emozionali. Si è instaurato uno scambio di ruoli fra registi e psicoanalisti, un innamoramento, una sorta di aiuto reciproco. Entrambi amano i simboli, entrambi parlano lo stesso linguaggio. Alcuni esempi di cinematografia che apre le porte alla psicoanalisi li troviamo:
- Nelle opere surrealiste di Buñuel, Un chien andalou.
- In opere divulgative come i misteri di un’anima di Pabst.
- Nei film di Hitchcock come che fine ha fatto Baby Jane oppure Schegge di paura.
- In drammi ambientati negli istituti psichiatrici come la fossa dei serpenti o qualcuno volò sul nido del cuculo.
- Nei film nevrotici cronici di Woody Allen, primo fra tutti Zelig.
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Il fascino della malattia
A sedurre i cineasti nel corso degli anni è stata anche la spettacolarizzazione della cura delle malattie mentali. Lo spettatore è attratto da questo argomento perché è fatto di due filoni in cui si potrebbe riconoscere: uno in cui la malattia è frutto di un trauma dell’infanzia, l’altro quello dell’ipnosi. Un esempio lo troviamo in un film di Hitchcock in cui una donna ladra, bugiarda e frigida guarisce quando, con un altro evento traumatico, prende coscienza di un terribile ricordo rimosso che l’aveva resa così. Nel film K-Pax, invece, il protagonista ritrova la sua identità grazie all’ipnosi: l’aveva persa dopo un gravissimo trauma, causato da qualcuno che gli aveva massacrato la moglie e la figlia.
La sala del cinema, buia e tranquilla, invita lo spettatore a entrare in contatto con il proprio inconscio, lo invita a rilassarsi e a entrare nella irrealtà delle immagini. Questo effetto dà l’illusione di produrre un’immagine filmica e di sognare. Il dispositivo cinematografo diviene uno spazio virtuale dove immagine e immaginazione coincidono, dove la realtà e la finzione cinematografica si sovrappongono.
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Questo, però, accade solo alle persone in grado di provare emozioni e lasciarsi andare all’intensità della relazione con le immagini. Al cinema, avvolti nel buio, si può ridere, piangere e liberare la mente da preoccupazioni o pensieri. Non sarà come una seduta di psicoanalisi ma di certo aiuterà!