Internet, lo sappiamo, è pieno di siti e forum che presentano strani manufatti antichi o futuristici a partire dai quali si vorrebbe giustificare l’esistenza degli alieni e provare la loro frequentazione sulla Terra. In realtà, l’argomento interessa anche studiosi un po’ più seri. Qualche anno fa, per esempio, la NASA pubblicò un studio sui tecnomarcatori, in cui si analizzavano alcuni artefatti che potrebbero essere stati prodotti dagli extraterresti.
Il documento era intitolato NASA and the search for technosignatures: a report from the Nasa Technosignatures Workshop. E l’oggetto di studio insisteva su oggetti ritrovati sulla Terra dall’origine sconosciuta. Su questi oggetti i ricercatori hanno applicato i loro tecnomarcatori, isolando quegli elementi che comproverebbero l’esistenza di una civiltà aliena grazie a evidenze di una tecnologia superiore.
Da sempre, sia gli ufologi che gli astrofisici poco propensi ad accettare l’esistenza degli alieni, utilizzano i tecnomarcatori per ricercare prove di vita extraterrestre nel cosmo. Allo stesso modo gli astronauti e i rover spaziali sfruttano i biomarcatori per capire se i reperti che raccolgono sulla Luna o su Marte possano rimandare a composti organici. Molti ricercatori però credono che alcune di queste tecnologie aliene potrebbero già trovarsi sulla Terra. Dove? In manufatti o sostanze che non sappiamo giustificare. Per esempio, in oggetti molto antichi, e che le popolazioni del passato non avrebbero saputo produrre con le loro arretrate conoscenze.
I documenti geologici, paleontologici e archeologici sono spessi incompleti, e capita di frequente che saltino fuori oggetti che gli archeologi non sanno spiegarsi. Ecco perché entrano in gioco gli ufologi e gli astrofisici. A dire il vero, è raro che si riconosca in un artefatto un potenziale tecnologico incompatibile con l’intelligenza umana, ma la ricerca è comunque continua. Fino a un paio di anni fa, si era convinti di aver rintracciato almeno un potenziale artefatto alieno, ovvero Oumuamua. Oggi, sappiamo che le sue origini non sono artificiali, ma del tutto naturali.
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A parte Oumuamua, ci sono altri oggetti su cui anche la NASA si è applicata con i propri tecnomarcatori. Qualche esempio? Si parte dai misteri del DNA umano al Papiro Tulli. E poi, ancora, possiamo citare le conoscenze perdute dei Dogon, i geroglifici nel tempio di Seti, il Georgia Guidestones, i Nephilim, la collezione Crespi e l’Esploratore dimenticato..
Il Papiro Tulli è un documento in forma di antico papiro. La sua scrittura è in ieratico. Secondo le testimonianze, il ritrovamento del reperto c’è stato intorno agli anni ’30 in Egitto. Secondo alcuni ufologi, il documento tratterebbe l’avvistamento di strani oggetti in cielo. Per anni, gli studiosi si sono scervellati sul papiro, credendo di trovarsi di fronte a una lista compilata da un’intelligenza superiore o da una civiltà più evoluta. Nel 2006, in seguito a un’analisi più approfondita, si è capito che si trattava di un apocrifo, o per meglio dire di un fake, composto nel primo Novecento tramite una grammatica di lingua egizia.
Un altro argomento su cui vengono applicati tecnomarcatori è la sbalorditiva conoscenza astrologica del popolo Dogon in Mali. Questo popolo, che potremmo definire culturalmente arretrato, rivela infatti una conoscenza ancestrale del cosmo davvero sviluppata. Gli anziani di queste tribù sostengono di essere i custodi di un canale di comunicazione esistente tra la terra e la stella di Sirio. E secondo alcuni ufologi questa sarebbe una prova di un legame fra extraterrestri e umani.
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Ultimo reperto: Il Georgia Guidestones. Addirittura un monumento in granito. Il sito si trova nella contea di Elbert, in Georgia, Stati Uniti d’America, ed è stato eretto nel 1979. Su otto delle superfici maggiori di questo monumento è inciso un messaggio composto da dieci “regole”, in otto lingue moderne, una per ogni superficie. La struttura, detta da alcuni la Stonehenge americana, viene da molti riconosciuta come un’opera in cui sono incastonati alcuni manufatti alieni.
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