Secondo un filone dell’antropologia classica la cultura civile umana ha avuto inizio quando i popoli antichi hanno cominciato a preoccuparsi della morte e a ritualizzarla nel culto. Da lì sono nate le religioni e le credenze sulla vita ultraterrena. La fine della vita ha sempre rappresentato per gli uomini un abisso di senso. Sarà anche per questo motivo che molte culture hanno dunque immaginato il destino delle anime dei morti come un viaggio. Verso il paradiso…
Morire ed essere trasportati in una diversa dimensione spirituale, un regno dei morti. Ecco un punto cardine comune a molte confessioni religiose. Spesso, il cosiddetto aldilà è stato immaginato o, per meglio dire, drammatizzato in una divisione antitetica. Nell’opposizione di due sezioni, due destinazioni distinte: gli inferi, occupati dai malvagi, e il paradiso, abitato dai giusti.
Il termine paradiso deriva dal greco biblico parádeisos, ovvero “giardino”, con riferimento all’Eden, di cui si parla nella Genesi. Quasi tutti i popoli hanno concepito una loro versione del paradiso, dai Sumeri agli abitanti della valle dell’Indo, dai Persiani agli Ebrei. Ancora oggi le tre religioni maggiori del mondo (Cristianesimo, Islam e Induismo) credono in un aldilà riservato ai giusti, dove lo spirito è messo in condizione di godere di premi e soddisfazioni.
I Sumeri credevano nell’esistenza di un primordiale luogo paradisiaco. Un punto di partenza, che poteva essere inteso come punto di arrivo (o di ritorno) per pochissimi privilegiati. Ne parla un testo sacro intitolato Enki e Ninḫursaĝa databile agli inizi del II millennio a.C., utilizzando il termine Dilmun. Questo paradiso era descritto come uno splendido giardino, il luogo della cessazione di tutte le sofferenze morali, del dolore fisico e degli affanni.
L’antichissima religione mazdeista, praticata nell’attuale Iran da più di tremila anni, introdusse invece la credenza in un giudizio finale. Tutti i morti sarebbero stati accolti in luoghi separati dalla Terra, secondo la loro condotta. Da una parte i buoni e dall’altra i cattivi. Nell’Avestā, il libro sacro dei seguaci di Zarathustra, sono dunque disponibili le primissime descrizioni dell’inferno e del paradiso, punti intesi come condizioni escatologiche. Il primo, un orrido deposito di tormenti e infelicità. Il secondo, uno splendido giardino di meraviglie, dove godere di pace eterna.
Per gli Ebrei il paradiso è quello terrestre, ossia l’Eden da cui furono scacciati Adamo ed Eva, e a cui possono tornare soltanto i profeti e i prescelti dal Signore. Non esiste un vero e proprio aldilà per le anime dei buoni, così come non esiste un inferno. Gli uomini, si dice nella Bibbia, torneranno nella polvere, anche se al popolo di Israele è promessa una seconda vita. Dove? I rabbini continuano a discuterne…
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Una risposta è fornita dal Cristianesimo. Fu infatti Gesù il primo a parlare esplicitamente di un aldilà dominato dalle tenebre, a cui sono destinati i peccatori, e di un regno dei cieli, in cui finiranno i giusti e i credenti. Sempre Gesù designò il luogo dei giusti col termine di seno di Abramo (Luca, XVI, 22), indicando dunque una dimensione schiettamente spirituale, lontana dall’Eden dell’Ebraismo.
Per i musulmani dopo la morte esiste la Janna, il luogo in cui Allah accoglie gli uomini meritevoli e buoni, giudicati al di là del loro credo. La concezione escatologica dell’Islam deriva da quella cristiana, che a sua volta nasce da una commistione di motivi ebraici e zoroastriani. Nel Corano non c’è alcun riferimento alla supposta presenza nel paradiso di settantadue vergini, pronte a soddisfare i desideri dei beati. Si tratta quindi di una storiella popolare, sfruttata e diffusa dai critici dell’Islam e da certe correnti estremiste della stessa religione.
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Gli induisti, invece, non credono in un vero e proprio paradiso. In passato sì… Nei testi vedici si parla del paradiso di Indra, un luogo incantevole e di beatitudine cui gli uomini potevano accedere mediante grandi e precisi sacrifici. Questo paradiso corrispondeva a un concetto molto terreno: garantiva godimento fisico e soddisfazione dei sensi.
I popoli norreni hanno tramandato nei loro canti epici il mito del glorioso Valhalla, un mondo libero e felice, dove vengono accolte le anime dei guerrieri. In questa dimensione gli dèi e gli eroi partecipano a una festa senza fine.
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Gli antichi Greci e i Romani immaginavano per i giusti la gloria, intesa come immortalità civile e culturale. Per i malvagi, gli empi e i codardi credevano in un tormento eterno, negli inferi, o nelle mani di un mostruoso orco.
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