L’Italia è il Paese con il maggior numero di siti protetti dall’UNESCO al mondo. Fra questi siti, due dei più importanti, più visitati e più estesi si trovano a pochi chilometri di distanza l’uno dall’altro. Stiamo ovviamente parlando di Pompei ed Ercolano, gli scavi di epoca romana che riportano alla luce le città distrutte dalla spaventosa eruzione del Vesuvio del 79 d.C., uno degli eventi più traumatici della storia imperiale.
Chiunque si accosti per studio o interesse alle meraviglie archeologiche di Pompei ed Ercolano non può prescindere dalla considerazione storica e scientifica dell’evento naturale che ha permesso a queste due città di sopravvivere ai secoli come pure testimonianze di vita antica. Conoscere l’eruzione del 79 d.C. significa addentrarsi in una tragedia e una potentissima manifestazione di potenza del vulcano campano.
Il giorno dell’eruzione del Vesuvio
Per secoli la data precisa dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. è coincisa con quella attestata da una lettera di Plinio il Giovane: il 24 agosto. Oggi, però, gli archeologici sono più persuasi da un’altra datazione, motivata da reperti, studi comparativi e riferimenti incompatibili con un’eruzione estiva. Dal 2010 si preferisce far coincidere l’evento con il 24 ottobre, una domenica.
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Il Vesuvio era già sveglio da qualche anno, anche se gli antichi Romani trattavano quel luogo come una semplice montagna, ignorando il potenziale distruttivo. Molte fonti ci parlano di terremoti a partire dal 62. A Pompei crollarono molte case, che furono presto ricostruite. Poi, nel 79, il vulcano diede inizio al suo ciclo eruttivo con fenomeni più riconoscibili e inquietanti. Quell’eruzione, come sappiamo, portò alla distruzione e al seppellimento di alcune zone di Stabia, Pompei, Ercolano e molte altre città a sud-est dal Vesuvio.
Lo scoppio del Vesuvio
Intorno all’una del pomeriggio, un boato spaventoso fu udito sino a Napoli e nell’antica Puteoli, che al tempo erano due delle città più popolose dell’Impero. Plinio il Vecchio, naturalista e ammiraglio a Miseno, fu il primo ad accorgersi del fenomeno e partì con alcune navi per avvicinarsi al Vesuvio. Il vulcano eruttò dapprima un terribile polverone di pomici, quindi gettò in cielo altre rocce vulcaniche originate da un magma pieno di gas e raffreddato. Plinio il Giovane, nipote di Plinio il Vecchio, ha testimoniato che cosa vide da Miseno: una gigantesca nuvola di cenere, che oscurò il cielo, e che presto assunse la forma di una chioma di pino. La nube, dopo poche ore (caratterizzate da terremoti continui), collassò su se stessa per precipitare sulla dorsale del vulcano, verso Pompei.
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La maggior parte dei morti a Pompei fu dovuta alla pioggia di pomici ardenti che seppellirono le abitazioni. I residui piroclastici dell’eruzione sono stati rintracciati in un’area ampia centinaia di chilometri quadrati.
La composizione chimica della lava
Molti pompeiani morirono a causa dei gas tossici. Secondo i vulcanologi i magmi pliniani erano più ricchi di silice, di sodio e di potassio. Nella seconda fase dell’eruzione si verificarono i flussi piroclastici. E qui si ebbero i danni maggiori e le maggiori perdite di vite umane per Ercolano. A Pompei, come abbiamo detto, c’erano già state parecchie vittime nella prima fase, a causa del crollo dei tetti. Nella seconda fase i morti furono provocati dall’asfissia.
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La lava, prima del tramonto, aveva già seppellito le città vesuviane. E quella lava ha protetto per secoli quelle costruzioni. In un certo senso, dobbiamo ringraziarla!